Lo scopo prima del profitto, la missione sociale prima del fatturato
Durante il lockdown una delle domande al centro del dibattito era: ne usciremo migliori? Come sempre il fronte si divideva in due schieramenti: sì e no.
La valutazione è ancora in corso. Io ho sempre teso a sperare che ne saremmo usciti migliori, o quantomeno diversi. Non so se ho ancora questa convinzione, ma sono convinto che qualcosa sia cambiato e stia tuttora cambiando.
Durante il confinamento ci siamo tutti messi a riflettere sulle nostre vite e sul sistema in cui viviamo, anche partendo dalle nostre condizioni: come continuare a lavorare, come garantire l’unità della famiglia costretta a convivere ventiquattr’ore su ventiquattro, ecc…
Ragionamenti del genere sono stati comuni a milioni di persone, sono stati centrali nel dibattito pubblico, sotto forma di servizi nei telegiornali, di discussioni sui social, di articoli sui giornali. Tutti ne hanno parlato.
In breve tempo questi argomenti sono diventati trend topic e hanno coinvolto anche le aziende e le imprese che hanno avuto a che fare con l’arrivo del virus e con le conseguenze simili o uguali a quelle che tutti noi abbiamo vissuto.
Si è registrato un cambiamento di pensiero
All’improvviso ci siamo trovati a leggere, sentire persone, non solo esperti, che dicevano quanto fosse importante pensare prima alla salute che al profitto, alla sicurezza che al fatturato. Se questa sensibilità così larga c’era anche prima del Covid-19, scusatemi ma non l’avevo vista.
Questa nuova sensibilità ha avuto lo stesso percorso fatto dai ragionamenti di cui parlavo prima: dalle famiglie, agli amici, ai conoscenti, poi sui social, sui giornali, nelle televisioni.
Questa nuova sensibilità si è poi acuita a causa delle conseguenze economiche del virus (che ancora vediamo in parte) e da quelle sociali. Dall’opinione pubblica è arrivata una nuova richiesta ai governi, alle classi dirigenti, ma anche alle aziende.
Ci sono stati report che hanno certificato quanto sia importante questo cambiamento, di cui le aziende devono tenere conto. Potremmo riassumere tutto questo in quattro punti:
- Fai la tua parte: non è questo il momento di sparire, ma di mostrare agli altri cosa sai fare.
- Non agire da solo: per aiutare le persone in questo momento di crisi, ma collabora con altre istituzioni, anche distanti dal tuo brand.
- Trova soluzioni, non vendere: questo è il momento di trovare soluzioni che risolvano concretamente i problemi delle persone (lo scrivevamo nell’ articolo di due settimane fa).
- Comunica con le emozioni, compassione e con i fatti: le persone sono rassicurate dalle azioni positive dei brand. Essere empatici per aiutare e informare correttamente.
Questa situazione si è acuita anche a causa delle conseguenze del virus, ma soprattutto grazie ad altri eventi che hanno impressionato l’opinione pubblica. L’uccisione di George Floyd, quel “I cant’ breathe” che risuona ovunque negli Stati Uniti e che anche in Europa si fa sentire, può essere l’inizio di una rivoluzione anche per quanto riguarda la comunicazione dei brand.

Adidas che retwitta Nike riguardo le proteste per la morte di Floyd. Una cosa bella grossa, no?
Tutto questo parte dagli USA, paese dove è scoppiato il caso, ma patria ideale del consumismo più sfrenato. Il New York Times, una delle principali testate giornalistiche americane, ha scritto un articolo sul tema.
Sembra quasi che le aziende ne abbiano abbastanza, che non si riposizionino sul mercato solo per convenienza, ma proprio perché una nuova sensibilità sta colpendo anche loro.